Testimonianze

Angelo Maltese, 1945
Cesare Alfieri, 1949
Franco Zammit, 1955
Filippo Garofalo, 1965
Salvatore Crispino, 1966
Angelo Maltese, 1966
Titta Rizza, 1974
Concetto Gilè, 1977
Enrico Agnello, 1977
Nino Franzò, 1977
Aldo Federico, 1977
Renato Civello, 1977
Umberto Spigo, 1979
Cettina Voza Pipitone, 1980
Francesca Gringeri Pantano, 1984
Enzo Papa, 1989



Angelo Maltese, 1945

“Oggi per Betta è giorno di festa, giorno memorabile. Le conobbi intento a dipingere «Topolino» sulla spalliera di una culla, Mi parlò del suo amore per I'Arte con voce tremante e sommessa, come di chi viva un dramma nel profondo dell’anima, e aneli una voce dì fede. Tentai di rincuorar!o, forse mal celando il mio intimo turbamento. Da quel primo incontro mi si accostò con piena fiducia, con dedizione appassionata. Oggi espone nel mio studio i suoi primi lavori attraverso i quali Betta, timido ed inconsapevole, esprime con purezza la sua fine sensibilità pittorica.”

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Cesare Alfieri, 1949

“Betta è un pittore che sa vedere con occhio chiaro e con affetto puro. La limpidezza della sua giovanile fantasia non lo porta mai lontano dalla ferrea realtà, né la vigile disciplina di un temperamento già vicino all’autodominio toglie freschezza alla sua ispirazione. Panico senza terrenità, colorista senza dispersione, tonale senza astrattezza egli contempera nella essenzialità della sua linea compositiva e nella profonda interiorità del suo colore un ardimento moderno ed una sensibilità estremamente ricettiva della nostra migliore tradizione.”

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Franco Zammit, 1955

“Oggi è la volta di Pippo Betta che espone nella suggestiva accogliente Galleria d’Arte dì Angelo Maltese; due nomi, questi, ai quali sono felice come non mai dì legare il mio. Pippo Betta, lo conosco e affettuosamente lo seguo da anni nella fervida e appassionata attività di pittore cui ha consacrata la propria giovinezza col più serio impegno. E lo conosce e lo segue con simpatia da anni anche il pubblico siracusano, al giudizio del quale egli ha avuto altre occasioni di sottoporre la sua pittura e che in questa esposizione lo ritrova ad una svolta decisiva delle sue esperienze, padrone ormai di uno «stile» concettuale e tecnico, rivelatore già di una piena maturità artistica e di una inconfondibile personalità.”

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Filippo Garofalo, 1965

“Betta, invece, si è mosso — ricordo— da una certa ingenua fiducia nell’oggetto colorato, per andare, in una lodevole costanza di acquisto, verso una squadratura di piani compositivi e una connessione limpida, non più di episodi illustrativi, ma di vere e proprie immagini; da una esposizione di contenuti visivi a un ripensamento figurativo.”

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Salvatore Crispino, 1966

“Presentare un pittore è mestiere difficile e a me inconsueto: presentare un amico pittore con parole che vogliono soprattutto augurargli successo, è invece molto più semplice. E dell’amico pittore dirò subito che dipinge con arte e il gusto propri dell’artista restauratore. C‘è un accostamento preciso — a mio modo di vedere — fra il lavoro di restauro cui attende quotidianamente e la sua pittura. Le tele di Betta portano infatti il discorso ordinato e paziente dell’ispirazione ricostruita, quasi un ripensamento del soggetto da una memoria svagata e frammentaria. E la pennellata nervosa, gli accenni coloristici d’impeto, i momenti di vivacità cromatica che appaiono bruscamente qua o là nei suoi quadri, stanno anzitutto a significare il punto d’incontro ritrovato fra suggestione e memoria. Nell’unitarietà dell’opera, tali concitazioni espressive riescono a placarsi e così le morbide linee delle valli iblee finiscono con l’armonizzarsi coi solchi dei cieli profondi di colore. Le case, i casolari rivivono la vita propria di un loro ambiente poetico e i dìgradanti volumi che li compongono acquistano particolari prospettive di luce. Il mondo di Betta è proprio in quell’illustrazione attenta di scorci, di primi piani, di angoli che egli ricostruisce a gradi e dimensioni brevi dal significato espressivo che se da un canto non raggiunge l’esaltazione dei colore come fine a se stesso, dall’altro nel compiuto racconto esprime gioia e ammirazione per quella piccola parte della realtà che il pennello trasporta sulla tela addolcendolo. In tal senso Betta è un solitario, un camminatore di strade proprie per il gusto di percorrerle nell’attesa di un traguardo. E Betta ‘66 vuole appunto essere la tappa di questo quieto cammino. I fiori, le nature morte che egli espone in cospicua quantità in questa personale, rappresentano il tema dell’anno, del Betta ‘66. Ed un tema a cui soluzione può anche lasciare perplesso chi è abituato al Betta dei paesaggi e delle marine, delle barche e delle case. Il pubblico dirà se questa nuova affascinante esperienza ha un senso compiuto e se rappresenti o meno un’acquisizione importante del ricco patrimonio artistico di Betta. A chi scrive, i fiori dell’amico pittore, le sue nature morte hanno svelato un aspetto sostanzialmente felice di un mondo poetico che si muove verso gusti e tendenze largamente espressivi. Fuori da ogni ragione di stretta complementarietà con gli altri temi trattati — riguardando la natura morta e i fiori materia che può restare indipendente nella storia di un pittore — la novità di Betta ha una freschezza istintiva che mirabilmente si accompagna - alla tecnica quanto mai raffinata.”

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Angelo Maltese, 1966

“Conobbi Betta ragazzo quando lo invitai a preparare la sua prima mostra personale nella mia galleria nella con i suoi primi lavori nei quali esprimeva con purezza la sua fine sensibilità cromatica. Betta è un puro di cuore, nelle ore di grazia le sue immaginazioni tessono trame cromatiche da cui scaturiscono le sue tele sospinte e realizzate nell’ordine, nella luce, nel silenzio. Lo ritrovo oggi mutato nel segno e nel colore, conciso, sintetico. Betta segue da sempre la sua naturale poetica vocazione al di sopra di tutte le mode che si sono avvicendate durante il suo cammino in arte. Deciso, fermo nella estasiata contemplazione del creato con l’illusione e con l’ansia, come tutti i puri di cuore, di poter scoprire un mondo migliore.”

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Titta Rizza, 1974

“Sono andato recentemente nello studio di Pippo Betta, che è situato in uno dei pochissimi angoli sereni della nostra città. In una strada stretta, in una casa con due balconi che si affacciano sulla linea ferroviaria c’è lo studio di Pippo Betta. Una piccola oasi di serenità. Alla calma dell’esterno si unisce la pace che viene dalle tele di Betta, un uomo sereno perché ricco di quella forza che si chiama saggezza, maturità. Forse perché aduso alla bellezza delle cose antiche, fragili che egli restaurando con mano esperta fa rivivere, forse perché forte di una bontà d’una limpidezza di sentire innati; certo è che egli nella sua pittura profonde quella forza enorme che viene dalla serenità interiore. Già con i soggetti che predilige, un angolo di Ortigia o di Noto, una barca ai calafatari, una natura morta egli dà una scelta di cose semplici; e poi come li dipinge, con grosse pennellate, guardando all’essenziale, esprime con ogni colore, con ogni segno sulla tela la sua grandissima umanità.”

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Concetto Gilè, 1977

“L’ultima volta che ci trovammo di fronte alle opere di Betta fu nel 1974. Lo abbiamo rivisto in questi giorni con particolare interesse, nel salone dell’Istituto Nazionale Dramma Antico che lo vide ancora giovane (1948) esporre i suoi primi lavori che lasciavano già intravedere sin da allora una schietta padronanza nello stile e nei colori. Il Betta di oggi, pur non trascurando la scelta poetica e l’amore per la sua città profuso come sempre in una serie di colori chiari di grande effetto, ha presentato uno studio di romanticismo e di passione per le cose ormai perdute. Di grande effetto sono gli “interni” che l’autore espone sotto una luce coloristica mista allo spirito di evasione dal mondo d’oggi. Ne è prova buona parte dei suoi lavori che vedono in primo piano Ortigia dal profilo antico ed incontaminato dalla violenza dell’uomo fattore prima, distruttore dopo. In ogni sua tela si vede il fascino e la poesia delle cose a lui più care: «barche e barconi in cantiere», «facciate», «cortili», «tetti» di Ortigia, ricordi vivi ma carichi di paura, il tempo li ha conservati, l’uomo no. È questo Betta, forse quello di sempre, ma oggi le sue opere sembrano darti, più di ieri, un messaggio sulle cose da amare e rispettare.”

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Enrico Agnello, 1977

“Dopo tempo Pippo Betta si ripresenta con una Personale “mozzafiato” perché soprattutto nei suoi lavori su Ortigia fa rivivere momenti magici della sua città, che egli ripropone con un senso poetico senza niente lasciare alla improvvisazione fine a sé stessa. Pippo Betta rifugge oggi come ieri dagli “isterismi” pseudo artistici, non concede spazio ai tantissimi riformismi, non è schierato con i falsi miti del progressismo parolaio ed imbrattatele. Per lui l’arte è un linguaggio che chiunque deve saper capire e sentire. Ed ecco allora i suoi quadri. Le sue case, le sue marine le chiese e le piazze, tutto questo è il mondo poetico di Betta.”

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Nino Franzò, 1977

“Per lui fare pittura è come fare poesia, anzi è fare poesia, poesia di luci e di colori, un vedere incantato la realtà che ci circonda e tradurla in immagini che non muoiono, che non possono morire perché destinate a rimanere sempre giovani. È far pittura non temendo di dipingere con i colori e i pennelli, di mettere nei quadri ogni cosa al suo giusto posto e di farsi capire; non temendo di far sapere che ama la sua terra, la sua Siracusa, l’azzurro mare che la circonda e che trova in essi l’ispirazione prima per le sue tele.”

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Aldo Federico, 1977

“Quando sono andato a trovare Pippo Betta nel suo studio, ho avuto l’impressione appena varcata la soglia, di trovarmi in un luogo capace di rievocare momenti e repentine sensazioni di un antico passato, ancorato nella profonda autenticità di un mondo rimasto refrattario agli allettanti stimoli dei pseudo valori che l’incalzante processo evolutivo ha distribuito e continua a distribuire nei segreti angoli di ogni animo Umano. Difatti Betta rinunciando ad accostarsi indiscriminatamente a questa o a quella corrente pur di tenersi, diciamo, alla moda, ha preferito rimanere assieme ai suoi stimoli psicologici e operare nella genuinità delle effimere e permanenti situazioni con l’ansia di ricerca che prevale con profonde risonanze nel suo delicato e accorto pensiero. Il suo è un linguaggio pienamente aderente ai significati delle tradizioni, dei costumi dello realtà quotidiane inserite ormai in un’immagine che racchiude elementi e forme votato a vivicizzare lo studio perenne di uomini temprati dall’assuefazione alle ricerche. Oggi, ogni nuova opera di questo artista, può definirsi una visione reale, filtrata con razionalità dei velleitarismi; una realtà scarnificata che lascia meticolosamente trasparire gli umori, le più sottili variazioni di colori e di sensazioni. In questo impegno di percezione sensoriale, l’artista si muove con una incantevole eloquenza di colori sempre attento a recepire la molteplicità dei richiami che si sprigionano dalla natura. Ferace come la sua terra, Betta esprime testimoniando un incessante travaglio spirituale, il suo armonioso pensiero, stratificando in rapide pennellato sulle tele accuratamente preparate, i colori che più ama. Un verde sempre presento, un rosso a volte lavorato, amalgamato alla freschezza singolare dei gialli, un celeste lasciato fermentare nella facoltà immaginativa di chi l’osserva. Sì, la pittura di Betta si riduce all’essenzialità, alla purezza dei segni rapidi, dove il pennello non indugia molto; le case, le strutture decantate e identificabili ai muri d’Ortigia realizzate nella loro compiutezza tecnica. Le immagini degli alberi dei paesaggi di un tempo, vengono sostituite da silenziose e depurate visioni interiori, che costruite coi puri colori della natura, trasmettono un’attualità preminente nell’ ambito della pittura italiana. Il probante silenzio dei lidi e degli interni ove la mente stanca ed esaurita, ritrova l’ardore, la freschezza dei vividi bagliori di poesia. Egli ha il merito di sentire il proprio tempo e di viverlo mediante personali invenzioni cromatiche.”

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Renato Civello, 1977

“Nella pittura di Betta — un colloquio scoperto, tenuto a filo di entusiasmo e di poetico stupore — non sono confluiti per nulla i segni di stanchezza che si riscontrano, sotto la maschera di questa o di quell’altra sterile emancipazione, nell’opera dì tanti artisti «consumati»; la freschezza è immutata, persistente l’identità qualitativa del rapporto ispirazione resa, pur nella messa a punto sempre più rigorosa del corredo morfologico e nell’accresciuto sincretismo delle premesse culturali e stilistiche. Il noto artista siracusano, che è disposto per temperamento ad un idillio contemplativo appena venato di elegia, nella stagione degli approdi è più che mai fedele al proprio mondo, un mondo semplice ed insieme complesso, un respiro di cose familiari, sfoltite di peso e sottratte ai crolli della coscienza per diventare simbolo ed universalizzarsi; ed è perciò che le fratture e le eclissi, i capricci semantici o le tentazioni metarazionali non lo interessano. La strada è quella maestra di una natura interpretata fuori della eredità estetizzante del naturalismo; come dire con una volontà di superare la abilità degli aspetti, di scoprire la loro sostanza ed il segreto intimo senza annullarne il riscontro memoriale. Sotto questo riguardo l’ostinata «insularità» di Betta deve ritenersi una linea di forza, come un agglutinante delle prospettive radicali e di tutte le emozioni creative contro il rischio dei velleitarismi e della dispersività. Nessuno potrebbe negare, del resto, la finezza e la capacità di espansione di un paesismo che. strutturalmente scarnificato fino ad assumere cadenze geometrizzanti, si definisce tuttavia nell‘area di un insospettabile dettato lirico, pieno di impulsi, di scansioni interiori, limpido di stesura e di consenso patetico. È da chiarire che il dipingere su tale piattaforma rimane la più difficile delle tipicizzazionì: apparire singolari nella eversione o nel gioco, accreditando le ipotesi di una eccezionale emancipazione, è ben più facile che esserlo davvero in una figurazione dialogante, spontaneamente costruita a misura d’uomo. Pippo Betta si è acclimatato senza sforzo nella propria verità mediter¬ranea, filtrando tutte le sollecitazioni esterne ed evitando l’impatto con le mille proposte dell’avanguardia massificata; e cosi la sua personalità si è fatta cospicua, le sue qualità primarie non sono state vanificate dalla assuefazione contenutistica e dalla sicurezza del mestiere, Qualsiasi dipinto, si tratti di un cortile con alberi, di un quartiere marinaro immerso in un flusso luminescente, di una sequenza di piani dominati dalla grande cupola, rivela un’autenticità partecipata, un possesso avvertito di là delle illusorie consonanze: tra il recupero della pittura en plen air (una felicità desueta di verde, di acque, di battiti d’ala) e la decantazione utrilliana delle superfici e delle atmosfere, Betta ha rinsaldato una scelta caratterizzante accentuando la castigata poesia delle proprie immagini in chiave antiespressionistica. Non si pensi, comunque, ad una sorta di agnosticismo edonistico: la rinunzia ad interpretare per problemi è forse essa stessa la più alta testimonianza di pensiero, un’accusa che stavolta non investe I’indifferenza degli sperimentalistici di turno, ma le tensioni iperboliche mutuate appunto dall’espressionismo ed identificabili con una vera e propria malattia dello spirito. I delicati accordi di composizione e di gamma di alcuni vasi con fiori ne sono documento tutt‘altro supplementare, Perché l’artista, rievocando per analogie sensibili, è lontanissimo, in definitiva, dalla trascrizione letterale; e una visione di Ortigia, con le sottili calibrature del bianco azzurrato, dei rosso-bruni, dell’ocra, gli consente la fuga dal reale, come in un contrappunto onirico, nell’atto stesso in cui l’occasione sembra staticizzarsi nell’assolutezza della cronaca. In questa pittura di Pippo Betta, che sa essere nel proprio tempo senza accettarne le involuzioni anarcoidi - e ciò non significa, ovviamente, negazione aprioristica di quanto è veramente inventato o sofferto fuori della più leggibile figurazione, non c’è posto per l’inganno: chi è abituato all’intendimento metodologico delle cose dell’attesa quale sia la distanza fra corredo scenografico e fantasia, fra memoria e sintesi liberatrice. Nell‘arte di Betta, così riservata e pur cosi eloquente, cresciuta nel segno dì una edificante chiarezza, l’intima valenza, potenziata dal concorso dei requisiti estetici, è dell’ordine poetico-esistenziale.”

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Umberto Spigo, 1979

“Di Pippo Betta conserviamo gelosamente un bozzetto, in cui un essenziale «vibrato» cromatico ricrea un volger d’ora e di luce sull’Anapo; riferimenti ambientali e temporali che confluiscono in un pregnante «paesaggio della memoria» - Così, quando (speriamo il più tardi possibile) ci troveremo lontani da qui, porteremo con noi, grazie a Betta la nostra «madeleine» siciliana (dal gusto dolce amara, certo). Parimenti chiese, case, vie, luci e mare d’Ortigia e della Borgata non sono, nel mondo pittorico di Betta, che frammenti di memoria salvati dall’odierno scompenso e fermati in geometrici e (quietamente) luminosi miraggi di tacita armonia; «sogni sognati» in cui schegge del reale si ricompongono in visioni che ci lasciano lo struggimento dei ritorni impossibili.”

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Cettina Voza Pipitone, 1980

“Betta vive in rapporto continuo, anzi è parte integrante di un mondo rispetto al quale non è in posizione dialettica: quando lo trasferisce sulla tela, tutto ha significato di testimonianza autentica, di osservazione sottile, di amore profondo. Non si a vvertono turbamento, protesta, sensazioni nascoste. Si coglie quella impalpabile realtà fatta di luce e colore che fascia e permea le cose rappresentate come vecchie case, scorci di marine e quartieri, facciate di chiese, realtà che Betta ha il magico potere di trasmettere fissandone valori ed essenza poetica. Non si tratta di un’opera di trasfigurazione o di astrazione dal mondo fisico di «idoli» o di elementi intuiti dalla mente dell’artista che scopre e rende realtà invisibili o nascoste. Betta conosce e sente profondamente la realtà che accoglie e svela senza il peso del quotidiano, del fatuo, dell’inutile, pura e lineare come in una novella creazione. Facile cosi notare come le linee di aggregazione delle sue tele sono quelle della struttura intima, o meglio di quell’articolazione che è essenza significante delle cose. Tutto ciò rappresenta una continua equilibrata ricerca: questa è la scelta di Betta che è anche proposta e invito, messaggio. Su questa sua strada Betta non manca, attraverso la sua più recente produzione, di mostrarci il cammino fecondo del suo ricercare e del suo dire. Notiamo un affinamento dei suoi mezzi espressivi, una più accentuata capacità di penetrazione dei soggetti, un ancora non svelato potere di sintesi, mediante il quale tocca le soglie di deliziose astrazioni. Il colore nelle tele di Betta non è elemento di distinzione, ma di fusione, diventa quasi sempre atmosfera, aura vitale che aumenta il potere di suggestione, soprattutto quando, come nei più recenti lavori, Betta mostra di voler sperimentare un maggiore moto del colore.”

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Francesca Gringeri Pantano, 1984

“Testimone di un modo di fare pittura che è un tutt’uno con la poesia, Pippo Betta è anche portatore di una visione artistica che è diventata condizione rivelatrice di una situazione spirituale non limitata da fattori contingenti a tempi fisici o reali. La sua vocazione di poeta di immagini tracciate con ariosità da un mozzicone di pennello intriso di terra di Siena bruciata o di bleu di Prussia, su una «juta» pastosa Imbevuta dal gesso dell’imprimitura, sa evocare momenti che ci inducono ad allontanare il quotidiano e con esso ritmi alienanti e violenza. Emerge dalle tele, che sì pongono nella stesura compositiva in una prospettiva frontale, dove il contenuto viene svolto su piani successivi con una impostazione di antonelliana memoria, una diffusa serenità, dovuta alla capacità dell’autore di fare prevalere attraverso passaggi cromatici intensi, ma infinitamente vaporosi, i valori del Sentimento. Affine all’espressione chagalliana, Betta riconduce alla semplicità originaria le forme, ne ferma in modo deciso i contorni e interviene con le ocre, il rosso mattone, gli azzurri cerulei e i teneri verdi per «raccontare» le forme e il vivere di Ortigia. Non evidenzia direttamente, nelle sue tele il degrado, l’abbandono dell’isola dove «posavano le quaglie», né i «centri di raccolta» dove le arance e i limoni vengono portati oggi a marcire, ma riesce a stimolare, proprio attraverso il suo modo «pulito» di porsi, la nostra riflessione per invitarci al rispetto e alla conservazione del patrimonio architettonico ed ambientale. È un vissuto sociale, quello delle opere di Betta dove l’uomo e non la macchina è misura del tempo e dello spazio. Sa far suo, infatti, il discorso di Bahr, ma per urlare contro la follia dell’autodistruzione, non evidenzia come gli espressionisti, attraverso il segno ed il colore aggressività e ruvidezza formale. Sa porgere, invece, con le sue tele, una visione pittorica emotiva dettata dal bisogno di credere e di farci credere in una realtà che può essere modo di vita. Emerge, quindi, in questo tipo di opere una spiritualità più autentica che in quelle dove il soggetto è di per sé sacro. Queste, fissate da linee severe ed essenziali, nel poco indugio concesso ai particolari, evocano figure che compongono scene bibliche o, in un procedere assorto, ma incalzante, svolgono episodi di un rituale religioso che meglio si identifica in una visione folcloristica. Sono certamente ricordi rivissuti, ma anche loro simboli di un sentire che si avvale del binomio saggezza-atmosfera d’incanto. Una fusione, questa, che costituisce per l‘artista la forza del suo porsi.”

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Enzo Papa, 1989

“In quella Ortigia, in quel fondaco di guitti del pensiero o dogana di talismaniche epifanie che fosse Piazza del Duomo, 1 a Siracusa, il giorno 11 febbraio 1945 si inaugurava una mostra personale di pittura di uno sconosciuto giovane, siracusano d’Ortigia (abitava in via Maniace), modesto, umile, timido, minuto, dagli occhi puntuti e dal sorriso sereno, appena uscito dalla Scuola d’Arte e dalle sofferenze della guerra. Si chiamava Pippo Betta, aveva vent’anni, nel cuore prodigi di colore e nell’iride riverberi di antichi tramonti al Porto Grande. Angelo Maltese, dall’occhio lupigno di negromante, già da tempo aveva puntato i suoi sguardi obliqui su tavole, cartoni, tele di sacco e supporti poveri e precari che il giovane Betta andava dipingendo con inusitata scioltezza di mano e vigorosa passione. Sorgeva da quei lavori una spontaneità fresca e piena di grazia, un’alchimia di colori, una vibrazione di ritmi e campiture, una delicata poesia dai toni corposi e dagli accenti leggeri, che rivelavano un’indole e un temperamento artistico di sicuro valore, su cui si poteva contare e scommettere. E scommise, Maltese: decise di selezionare 28 opere e di esporle bell’e incorniciate a far figura nel suo studio di piazza del Duomo, i per i suoi amici intellettuali e per il pubblico. Scrisse anche una breve nota al cataloghino, un modesto pieghevole con l’elenco delle opere. Quello, per Betta, fu «giorno di festa, giorno memorabile»; fu battesimo e crisma, benedizione e consacrazione. A dare uno sguardo al curriculum, da quel lontano 1945 (cioè da 45 anni) ad oggi, la presenza di Betta nel panorama artistico siracusano è stata costante. Egli, restauratore presso la Sovrintendenza ai monumenti, dove ancora brucia le ore della sua giornata, ha mantenuto col pubblico un rapporto dialettico che non ha visto pause e sospensioni; ha partecipato ad un’infinità di mostre collettive, ha periodicamente ordinato le sue mostre personali. Insomma, pur appartato, solitario, schivo, ma di temperamento affabile e cordiale, chiuso nel suo studio di vicolo Salice, Betta ha lavorato senza interruzioni, seguendo i fantasmi della sua mente e i palpiti del suo cuore, con una passione che mai gli è venuta meno, cercando così di spegnere l’ardente lingua di fuoco che ancora gli arde in petto. La sua pittura, sempre cosi corposamente densa e carica di suggestioni, dove il colore si fa Colore e trova sublimazione nelle campiture larghe, dai ritmi armoniosi, non si è mai accesa di implicazioni intellettualistiche o di artificiose e non sentite problematiche, non è mai diventata convulsa e incomunicabilmente vitrea, o zuccherosa, inorpellata e civettuola, come è capitato e ancora capita a tanti che, a lungo andare e all’occhio esperto si rivelano vendifrottole gravidi di vento e ciaramellari di ingenui. La pittura di Betta, nella chiarezza e nella leggibilità di ogni opera, nella coscienza della sua linearità, nella limpidezza e nel candore sottesi, nella semplicità dei suoi temi e, non per ultimo, nella coerenza dell’uomo e dell’artista, si è sempre materiata di larghi toni poetici e di visioni innocenti, di barbagli e di improvvise illuminazioni, di incantesimi e di tocchi prodigiosi. La pittura di Betta mai è stata funambolesca e camaleontica, infilacciata e ambigua, trasgressiva e infermiccia. Betta è stato sempre Betta: la semplicità elevata a dignità artistica. Oggi Ortigia, centro vitale e cuore delle Siracuse, ha perduto la fresca e robusta vitalità che ancora aveva fino a dieci, quindici anni fa. Ora pare aver ceduto il passo ad un infame destino di massificazione e mimetizzazione. Ma se c’è un artista visceralmente legato ad Ortigia e che di Ortigia abbia fatto quasi il tema unico del suo discorrere; che per anni e anni abbia dipinto le sue strade, le sue chiese, le sue piazze, i suoi giardini in fiore, il suo mare, le sue barche, le sue atmosfere, i suoi colori, odori e sapori; che di Ortigia abbia saputo offrire un ritratto, un immagine reale e trasfigurata nello stesso tempo, cogliendo quasi in sequenza le metamorfosi delle cose e gli effetti dei colpi inferti dal tempo e dagli uomini; se c’è un artista che abbia saputo elevare inni di colorata poesia ad un luogo sentito come un universo, il luogo del mito e della vita, della luce e del sogno; se c’è un artista che col colore abbia saputo crearsi le vie, le chiavi, i procedimenti, le maniere per esprimere tutto ciò, questi è Pippo Betta. Il colore è luce ed ombra, corpo e anima, creazione e cenere, cuore e mente, emozione e senso. Il colore è sortilegio, magia, mistero, viatico e lenimento. Il colore è la pittura. Non c’è Pittura senza Colore. Ed è alla Pittura, al Colore, che è pervenuto Betta: questo nuovo, incredibile, folgorante, ultimo Betta. Il timido pittore di Ortigia, l’innocente incantatore, l’ingenuo manipolatore si è rifatto i pennelli con le penne delle ali degli Angeli, ha rubato la lu¬strura ai costati del cielo, lo splendore alla nostra primavera e reliquie di luce al disco del sole; ha scrostato il suo occhio, ha rimosso dalla mente ogni tono descrittivo, ogni accento narrativo, ha piegato l'argentovivo delle sue frenesie pittoriche verso più interiori bersagli. Ora Betta, dopo la malattia, rigeneratrice come ogni malattia, vive in una dimensione nuova, purificata e ideale. La sua pittura si e fatta essenziale, rarefatta, il tono generale di ciascuna opera pia interiorizzato; la sua mano, sciolta da ogni soggezione, attingendo da una tavolozza di straordinari miscugli, scorre senza remora alcuna in una conquistata, gioiosa libertà che è invenzione e creazione di ritmi puri e di pure accensioni cromatiche. La luce si fa corpo in queste ultime tele con delicata irruenza, si sbriciola in mille rigagnoli e iridescenti polverii, si accende improvvisa e inaspettata nell'ordito colorato, disegna musicali calligrammi, inebria lo sguardo e l'anima dell'osservatore e l'appaga. La luce anima il colore, gli dà senso e vita, lo esalta, lo nobilita, lo fa esistere. Colore e luce, luce e colore: ê in questo binomio, in questa corrispondenza l'essenza di ogni linguaggio pittorico. Non vibrerà mai un quadro senza luce, senza colore: sarà muto e senza ragione, sarà inesistente. II colore è luce. Non c'e Colore senza Luce. L'occhio di Betta, fisicamente ridotto e impoverito, si è invece amplificato paradossalmente, si e enfatizzato, riuscendo a vedere meglio di prima ciò che prima non appariva puro; e lui, il piccolo, timido, minuto Betta, celebra in questi quadri, olii e acquerelli, non ,altro che la luce, la luce di Ortigia, la luce e il colore, la luce del colore, la Luce di Lucia.”

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